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Linda Sofia Randazzo, fra espressionismo ed essenzialismo.

Straordinaria artista, la cui arte si erge dai flutti e dal sole siciliani. Un'apostola della grande tradizione mediterranea, con i meriggi luminosi e immobili, cieli percorsi da gabbiani che, come note musicali, vibrano nell'aria. Ma anche gabbiani immobili, nel silenzio, smarginati dal calore del giorno che palpita di un'ultima parola. Nei quadri di Linda Sofia Randazzo vi è una limpida ricerca solitaria, piena di carattere e originalità; un'anima fortemente espressionista che si dichiara nell'uso del colore; ma c'è anche una vocazione essenzialista, per cui ogni particolare si erge a universale. E questo binomio si dipana fra tradizione e progetto, sulle orme sperimentaliste di Guttuso, con i colori vivi, abbacinati dal sole; con la Sicilia, immensa nello sfondo, che si è già trasmutata nel mito, in un luogo fuori dal tempo ma non irreale. Nel quadro riprodotto al centro, una lampara remiga fra mare e cielo, lungo un confine labile: è un frammento del tutto, un'azione che si ripete all'infinito, la stessa che fu dei padri e sarà dei figli, piena di umanità e sovraumana bellezza. Lo sfondo è essenziale, ottenuto per sottrazione. Le figure si compongono per sintesi retinica, da macchie di colore, e solo dai vuoti si ottiene la forma, si coglie l'essenza. Sono figure quotidiane, quelle di un giorno eterno sottratto al divenire. Si animano su luoghi marini, scogli di colore e luce. Quelli di Linda Randazzo sono mondi umani, eppure fuori dal tempo, come decantati dall'impurità del divenire. È il mondo dei modelli eterni che si distende nelle pieghe del tempo. Il mondo che coglie la bellezza nella loro verità, senza artifizio. I personaggi non sono però modelli delfici o eroi leggendari, hanno le fattezze di donne e uomini comuni, recano la bellezza dei loro difetti. Le donne sono veraci, pingui, dai sorrisi talvolta sguaiati, come la Giuditta del 2017, obesa e abbronzata, oppressa dal caldo. E anche Santa Rosalia prende forma umana: è grave, imperfetta e sorridente su un canotto sgonfio, vezzeggiata da un amante smilzo e allampanato, che riesce a rubarle un sorriso per l'improbabile sforzo di trarla in salvo. La produzione di Linda Randazzo possiede infine una verità materica, che si rivela nella varietà delle tecniche pittoriche: i quadri ad olio su tela restituiscono un'espressione carnale, che conferisce ai corpi una densità; gli acquerelli invece riflettono miti frammenti di quotidianità,  attingono ai toni luminosi dei meriggi infiniti dell'estate e del mare, sono sfarzosi di luce; così, per esempio, la noiosa attesa di due bambini che aspettano di poter fare il bagno in un tempo dilatato e sonnolento.Le chine invece velano sempre di una fioca melanconia lo spazio che si affolla di figure incomplete, di tratti essenziali, di busti, spalle, volti che interpellano l'osservatore, lo mettono in gioco, forse per un talento sinestetico in cui ogni tratto rivela una voce che chiede di essere ascoltata. Così la tecnica si fa canale comunicativo, diaframma di un racconto univoco che scompone la realtà. Qui il talento è mosso dall'autenticità, ha per tema l'espressione del reale, ma della realtà sa cogliere l'attimo eterno che solo lo sguardo di una vera artista è in grado di svelare.

Fabio Ciracì

<<C'è nei tuoi quadri una ricerca solitaria, che non saprei definire; un'anima fortemente espressionista che si dichiara nell'uso del colore; ma c'è anche una vocazione essenzialista, per cui ogni particolare si erge a universale. E questo binomio si dipana fra tradizione e progetto, sulle orme sperimentaliste di Guttuso, con i colori vivi, abbacinati dal sole, con la Sicilia immensa nello sfondo, che però si trasmuta nel mito, in un luogo utopico. Così una lampara remiga fra mare e cielo, lungo un confine labile, è un frammento del tutto, è un'azione ripetuta all'infinito, che fu dei padri e sarà dei figli, piena di umanità e sovraumana bellezza. Essenziale, come lo sfondo dei tuoi quadri, scogli di colore e luce. Mondi umani, eppure fuori dal tempo, come decantati dall'impurità del divenire. È Il mondo dei modelli eterni che si distende nelle pieghe del tempo>>.

<<Simbolo di eterea leggerezza e di indefinito stupore.
C'è ancora il soffio del vento marino sotte le sue ali. Il gabbiano è il risultato di una sottrazione, è liberato dal contesto, decantato da ogni elemento del divenire, illuminato dalla luce bianca della pagina che si presenta all'occhio come il mondo delle idee e del possibile, perfetto e immobile, un frammento di tempo eternizzato.
Che meraviglia e che poesia!>> 

Per l'arte e per Linda

Ho la fortuna di conoscere molti artisti, e tutti -dico tutti- sono estremamente generosi. Oltre il dono della propria arte, gli artisti offrono mondi narrativi, universi di significazione, forze prospettiche che mettono in discussione il reale, che rendono insolito l'ovvio. Forse la generosità degli artisti è dovuta al fatto che l'arte è innanzitutto condivisione. Essa lega inesorabilmente l'impulso nativo dell'espressione alla necessità dell'ascolto, fosse anche solo con se stessi. Libertà e necessità. Libertà di un animo che non può fare a meno di poetare, di dipingere, di fare musica, di imprimere la propria forma nella materia, di raccontare in immagini o in note il mondo, di librarsi danzando nello spazio, imitando il moto dei pianeti. L'arte ci permette di riflettere sul mondo, di cambiarlo, di tollerarlo, non solo di consolarci, non solo di sorridere. Talvolta ci scuote, ci turba, ci disorienta, ci interroga nel profondo; talvolta ci offre un abbraccio materno, uno sguardo di comprensione.
In questo momento gli artisti pagano un prezzo molto alto per la crisi dovuta alla pandemia. Cinema e teatri sono chiusi, specialmente le piccole attività, le "botteghe artistiche", le piccole compagnie teatrali (quelle che spesso trasformano scantinati e garage in galassie in espansione!). Per fortuna, di alcune forme di arte ci è rimasta la fruizione individuale, ma siamo privati della sua forza sociale e partecipativa, l'arte che si muta in socialità ed eleva il particolare all'universale.
All'arte e a gli artisti noi dobbiamo moltissimo e la vita davvero sarebbe cosa misera e indegna se l'arte fuggisse via, impaurita, dal nostro mondo. L'arte è necessaria, non è un lusso, è vita.
Per tutti questi motivi, a Natale, Vi chiedo di pensare a un dono artistico: che sia un libro di poesie, un quadro, un film o una commedia, poco importa. Regaliamo arte. Ci farà bene e farà del bene.
Io, per esempio, conosco un'artista talentuosa, che sa dipingere il vento nelle ali dei gabbiani, che strappa al tempo un po' del suo tessuto come stoffa della sua tela, per fissare l'attimo in cui un bambino scalcia un pallone o una intrepida ganga si rincorre sulla spiaggia, oppure per eternare i luminosi mattini siciliani in riva al mare, o ritrarre la bella famiglia di un tempo oramai trascorso, che gode di un meriggio eterno.
Si chiama Linda Sofia Randazzo e nel mio studio, da questo Natale, c'è un po' della sua arte.

Le tele della siciliana Linda Sofia Randazzo sono il racconto di un'artista che sa rendere universale il particolare e contingente, che ascende dalla vita quotidiana al mondo delle idee archetipe di Platone nelle linee veloci dell'acquarello e della china. Lo sfondo bianco ed astratto dei suoi quadri, a cui spesso ricorre, mostra integralmente la sua poetica: la realtà è decantata dei suoi elementi effimeri per essere innalzata a una purezza eterea, fuori dal tempo, in uno spazio immobile ed eterno. Si vedano i magnifici gabbiani che fendono l'aria in un "meriggiare pallido e assorto" quasi montaliano se non fosse però per l'assenza del male di vivere, che nelle sfere inattingibili dell'iperuranio è del tutto assente. Proprio per questo elemento platonico, le tele della Randazzo rappresentano la "beata riva" dove all'anima è concesso ristoro, una pausa meridiana dai lacci dell'esistenza.

Così, anche il calcio ad un pallone Supersantos sulla riva di un mare blu cobalto - elemento sempre presente nei suoi quadri - diventa un frammento di esistenza condivisa, parla della vita di ciascuno di noi, della nostra storia, del ragazzo che ognuno di noi è stato un tempo, e lo ferma nella luce, come per incanto, eternando l'effimero su tela, come solo un vero artista sa fare.

Sì, adoro questa artista, che meriterebbe di essere maggiormente conosciuta! - ma sono sicuro che accadrà presto.

Fabio Ciracì

Dipinse l’uomo in brache di tela

questo concentrato tetramorfo d’Erinne

che contrasse l’asma durante l’assedio di Serse

fiera resistenza nell’acropoli del muro di legno.

Col pennello scavò pupille di santi dai corpi pietrificati dei mortali

- con occhi neri e furenti di Medusa -

trasse la misericordia dall’informe il mastice e la colla per ogni

esistenza spezzata

le cornici e i quadri da donare agli appestati.

Francesco Cusa

Che Palermo sia legata a doppio filo con la pittura è un dato innegabile. Spesso lungo questo filo si formano nodi, di quelli marinari ben saldi e fatti ad arte,  perlopiù nodi scorsoi, così che quanto più forte è la trazione esercitata sul corrente tanto più forte il nodo stringe l'oggetto attorno al quale è avvolto. Oltre molti e diversificati nodi di giunzione.

Anche Linda è artefice e vittima di questi nodi, li stringe spesso, con forza titanica, finchè le fibre del cavo tendono a danneggiarsi. L’intrigo di nodi però è sempre più fitto e ritrovare un ipotetico filo d’Arianna è l’impresa che Linda cerca di portare a termine.  L’artista nelle vesti di un moderno Teseo, sul piano labirintico della tela, si scontra con il violento Minotauro, archetipo di una delle possibili declinazioni dell’identità umana, un’identità ancestrale sottomessa al “logos”, capacità logica, intelligenza, ragione, alla ricerca di una via d’uscita che si mostri salvifica, terapica.

Questo è a mio avviso il sotto testo del ciclo di  ritratti che Linda ha prodotto in questi ultimi anni,  una rappresentazione del dramma, della coscienza di sé e dello smarrimento di ogni individuo di fronte all’incontro con la propria coscienza, un Minotauro a cui è stato negato l’accesso a quel logos che altro non è se non un filo ormai consunto.

Ma aldilà di tale analisi “mitologica”,  i ritratti alacremente realizzati da Linda ci permettono di assistere (e/o di essere sottoposti) a dei violenti processi, il più delle volte lontani dalla forma e dai termini prescritti dalla legge, di tali processi ogni cedimento è registrato con cura, lasciando ampio spazio alla  descrizione degli anfratti più umidi, muffosi e sotterranei dell’animo umano. L’artista, affidandosi ad uno uso pastoso di terre e lacche, con cinismo da manuale restituisce tale umidità.

Alla ritrattistica, si affianca oggi una dimensione definibile di genere, una cruda riscrittura di alcune notissime fiabe appartenenti ormai di default al nostro immaginario. Cappuccetto rosso, in primo luogo, è una vischiosa lettura della femminilità in termini vagamente sessuali, possibilmente poco avvezzi all’esaltazione di una qualsivoglia forma di emancipazione femminile.

E’ curioso quindi che sia una donna a rileggere questa classica fiaba popolare, ispirandosi poi alle incisioni di Gustave Dorè, mutuandone matrice iconografica, ma lavorando alla ricerca di un senso capace di annullare con dolcezza pagine piene di revisioni ad opera dei fratelli Grimm, di Perrault, di Collodi.

Ad ogni modo, che si tratti di un dato reale, identitario, o di una fiaba resa pretesto, per Linda il mezzo pittorico è un moto di emanazione delle singole realtà dal principio supremo.

Federico Lupo

Questi poveri uomini esiliati sulla spiaggia dell' ultima solitudine in questa confortevole fatalità, stupiti dal richiamo del baratro calano a picco nel marasma della metamorfosi che incendia la materia e se ne stanno ardendo sotto il sole, liberi e sciolti sulla sabbia della sopravvivenza, stesi nella metamorfosi che blatera a cielo aperto mentre Trionfa un vagito di eternità.

Gianfranco Labrosciano

 

“Si parla, si vede, si muore. Vi sono dei soggetti, è vero: questi sono dei grani danzanti nella polvere del visibile, degli spazi mobili in un brusio anonimo. Il soggetto è sempre una deriva.
Nasce e svanisce nello spessore di ciò che si dice, di ciò che si vede.” Gilles Deleuze
E’ sorprendente nella sperimentazione della Randazzo, la consapevole e materiale sorveglianza degli effetti. L’intenzione figurativa, mai simbolica e mai metaforica, lascia il posto ad una sperimentazione in presa sul reale, dove, per moltiplicazione di visibilità, le pieghe dei visi e dei corpi (le posture), si opera un vero e proprio affondo oltre il soggetto generico. Si tratta piuttosto di qualcosa come la creazione di un segreto. Il corpo viene de-stratificato di ciò che ne codifica i flussi e gli sottrae la vita: la Società, il Senso Comune, le Identità Fisse.. Attraverso queste silhouette mobili, queste posture glissé, ad emergere sono degli stati affettivi, ‘stadi di vita’ kierkegaardiani, modalità di esistenza singolari. Per il visibile e la percezione, ne viene un ‘di più di realtà’.
Dell’Arte si afferma qui il senso conoscitivo, sui corpi e sui divenire che lo attraversano.
La scomposizione del loro essere generico e la loro (ar-)resa inorganica è lo straordinario effetto di questo divenire-indiscernibile del tratto, a firma Randazzo. “Il faut disparaître, devenir inconnu”...
Luca Carabetta

 

La percezione di alcune città particolari - e Palermo è tra queste – non prescinde dal rapporto con il paesaggio circostante. La natura si infiltra nel tessuto urbano e diventa di volta in volta orizzonte costante, linea di fuga, zona residuale, frammento superstite o area verde antropizzata. Nel caso di Linda Randazzo lo sguardo sulla città porta con sé tutta l'emotività e l'attitudine lirica propria di una visione fantastica, romanticamente contemplativa.

Le due grandi tele a olio si concentrano sull'anima selvatica di una città mutevole, catturata nelle felici aperture che la tengono saldamente ancorata alla propria interminabile deriva paesaggistica. Da un angolo di terra bagnato dal mare si scorge Monte Pellegrino, massiccio montuoso che domina il golfo di Palermo. Simbolo della città, il promontorio ne diventa qui la faccia estrema, vetta poetica che accompagna la linea d'orizzonte. L'atmosfera algida, virata nel blu di un fredda aurora invernale, trova forza nella qualità di una pittura fluida, vellutata, fatta d'acqua e d'aria. Suona un po' come un contro canto Scirocco, tela risolta nei toni ocra, grigi e rosa che tanto richiamano le atmosfere desertiche tipiche dell'isola. Il vento africano che spesso riscalda il cielo palermitano sembra impregnare la superficie cromatica, restituendole un tepore epidermico. Anche qui il paesaggio è gestito nel segno di una orizzontalità rigorosa: la riva rocciosa, lo specchio d'acqua in mezzo e il profilo del monte in lontananza sono i tre piani che strutturano lo spazio, addentrando lo sguardo nel paesaggio, dal basso verso il fondo. Un fiore stilizzato è ciò che resta della vegetazione, fulcro invisibile dell'immagine che ne interrompe il ritmo costante e progressivo.

Helga Marsala

 

"Proprio questi monti e questi fiumi realizzano la Via degli antichi Budda

Gli uni e gli altri permangono nella propria vera forma e realizzano la loro

più autentica qualità.

Trascendono il tempo e dunque operano nell'eterno presente.

La virtù di una montagna è completa e non manca di alcunché dunque il monte è sempre radicato.

Eppur si muove continuamente. "

 

Dogen

Il passaggio dall'olio all'acquarello è sempre un evento rivelatore nella vita di un pittore.  

Ci eravamo abituati  ai ritratti ad olio di Linda Randazzo, dove la materia fisica e psicologica

irrompe per creare un mondo introspettivo quasi ossessivo e dove i pensieri si agitano nei volti.

Questo nuovo mondo di acquarelli ci rivela l'altra faccia della medaglia: da una Linda schopenhaueriana.

nella quale la figura umana è là nel suo essere tragico ed il corpo problema ad una Linda  "haiku ", minimale

e poetica, osservatrice della natura che la circonda, della poesia del quotidiano nella quale ci appare

il dio delle piccole cose. In fondo dopo tanto rumore attorno ad una Palermo acre, barocca e spesso,

forzatamente espressionista ad essa tocca di nuovo uno sguardo semplice e lontano dall'inqutetitudine dei

suoi abitanti che Linda ha sempre saputo rappresentare così bene.

In queste " gymnopedies " con i suoi cani addormentati sotto il sole e la riscoperta della veduta classica

di Palermo, quella da Est che si era ormai persa dai tempi di Lo Jacono e compagni, tutto viene visto " da lontano " e con semplicità, ed alla fine di questi piccoli pezzi si potrebbe forse iniziare ad apprezzare un altro tipo di forza più sottile e persistente, così come nelle discipline spirituali ad una " via umida " si contrappone un " via secca", sta all'adepto scegliere quella più adatta a lui.

Gianni Gebbia

Nel caso di Linda Randazzo lo sguardo sulla città porta con sé tutta l'emotività e l'attitudine lirica propria di una visione fantastica, romanticamente contemplativa. Le due grandi tele a olio si concentrano sull'anima selvatica di una città mutevole, catturata nelle felici aperture che la tengono saldamente ancorata alla propria interminabile deriva paesaggistica. Da un angolo di terra bagnato dal mare si scorge Monte Pellegrino, massiccio montuoso che domina il golfo di Palermo. Simbolo della città, il promontorio ne diventa qui la faccia estrema, vetta poetica che accompagna la linea d'orizzonte. L'atmosfera algida, virata nel blu di un fredda aurora invernale, trova forza nella qualità di una pittura fluida, vellutata, fatta d'acqua e d'aria. Suona un po' come un contro canto Scirocco, tela risolta nei toni ocra, grigi e rosa che tanto richiamano le atmosfere desertiche tipiche dell'isola. Il vento africano che spesso riscalda il cielo palermitano sembra impregnare la superficie cromatica, restituendole un tepore epidermico. Anche qui il paesaggio è gestito nel segno di una orizzontalità rigorosa: la riva rocciosa, lo specchio d'acqua in mezzo e il profilo del monte in lontananza sono i tre piani che strutturano lo spazio, addentrando lo sguardo nel paesaggio, dal basso verso il fondo. Un fiore stilizzato è ciò che resta della vegetazione, fulcro invisibile dell'immagine che ne interrompe il ritmo costante e progressivo.

Helga Marsala

L’antiritratto:

Conosco da anni Linda, dai tempi dell’Accademia, e mi ha sempre colpito la sua ostinata ricerca che si è spesso tradotta in pittura. La sua è un’arte di debito e di omaggio, spesso di passione, una pittura che si scontra con molte contraddizioni, ma che lavora su un limite folle e transitorio, nonostante i riferimenti all’arte siciliana degli anni ’20 e ’30... la sua è una pittura atemporale che mira all’alterità. Raramente ho visto tanta energia ed ostinazione nel conseguimento di un obiettivo artistico così distaccato dal reale, e Linda, ve lo assicuro, raggiunge sempre i suoi obiettivi artistici.

Linda vive in una villetta in stile Belle Èpoque, circondata da amiche e da amici; un enorme ritratto dei suoi nonni, da lei realizzato, campeggia nel suo soggiorno; usa con disincanto e follia le sue buone maniere; dipinge ritratti dal vero, ammirando le pittrici Lia Pasqualino Noto e Sofonisba Anguissola. Già, sporca le tele con ritratti dal vero, Linda, un genere che nella sua semplicità nasconde la sua complessità: poco commerciale di natura, il ritratto dal vero è sempre meno praticato nell’arte contemporanea, lontano dalle mode pittoriche milanesi fatte di lolite maledette, colori squillanti, pop-surrealismi e street-art.

Linda Randazzo dipinge lo spazio tra sé e i suoi modelli scegliendo la strada del discreto distacco, componendo degli anti-ritratti in punta di pennello che rigettano l’identificazione del personaggio con la propria raffigurazione. Lo studio della luce e delle espressioni rifuggono la somiglianza - come legame al dato reale ed empirico - e ricercano l’infinito astratto ed assoluto, ricostruendo facce come mappe di un universo parallelo, altro e atemporale. Niente psicologia, niente corrispondenza, solo alterità, ritratti dal vero che cercano finalmente di liberarsi dall’ansia da prestazione da somiglianza.

Ogni tela è come impressionata da una luce tetra e primo-novecentista, una belle èpoque perenne in stile Bella-Palermo-Odor-di-Gelsomino, che anela alla metafisica delle mappe astrali.

Vincenzo Profeta del Laboratorio Saccardi

Nessuno di veramente importante:

All’interno di una sfera d’affetti personali, e in una costante tensione fra concretezza del quotidiano e levità spirituale, prendono vita gli oli su tela e i disegni di Linda Randazzo (Palermo, 1978). Nessuno di veramente importante, titolo della prima personale dell’artista siciliana, è un racconto di vita, una narrazione per immagini intima e intensa. Il percorso espositivo si sviluppa in un ritmato alternarsi di volti, dettagli e situazioni che, seppur gravidi di rimandi autobiografici, diventano le coordinate per una riflessione sull’identità dell’individuo e la sua continua definizione attraverso l’imprescindibile relazione con altri - potenzialmente infiniti - soggetti e oggetti.

Randazzo è fondamentalmente un’osservatrice; voracemente scruta e capta, analizza e ricostruisce frammenti di realtà, raccontando esperienze esistenziali, proprie e altrui, in una pratica artistica che oscilla tra verosimiglianza descrittiva e deformazione espressionistica. La predilezione per il genere aulico del ritratto si risolve in una riattualizzazione dello stesso attraverso una presa diretta sulla realtà: un guardare, schietto e personale, che priva i soggetti di qualsiasi aurea protettiva e li rende incredibilmente fragili, autentici.

Non c’è la volontà di attuare una registrazione pedissequa del vero, non c’è il desiderio di definire con precisione il dettaglio fisiognomico. Ma c’è, piuttosto, l’esigenza di instaurare una relazione tra sé e il soggetto ritratto, per dare forma a quell’impalpabile e spesso sfuggente empatia che lega due individui. Tale possibilità di relazione si traduce in comprensione dell’altro e determina, a sua volta, il venir meno della distanza tra opera e fruitore, nonché il possibile ribaltamento tra oggetto osservato e soggetto osservante. I volti delle persone a lei care, degli amici artisti così come i visi dei bambini che abitano nel suo quartiere - stretti e costretti nello spazio angusto della tela - si lasciano scrutare per scrutarci a loro volta. Gli oli, segnati da pennellate veloci ma decise, caratterizzati da cromie a volte accese e nette, altre volte liquide e appena accennate, si definiscono sulla tela nell’arco di un paio d’ore di lavoro, in quanto risultato di un’esperienza creativa estemporanea, emozionalmente immediata ma razionalmente controllata. Vivi e prepotenti nel loro esserci, i dipinti sono affiancati da un’installazione composta da numerosi piccoli disegni. Moltissimi i fogli che, come appunti fugaci di un viaggio ancora in corso, raccontano di persone - ancora una volta attraverso ritratti -, di momenti, evocati da pochi significativi dettagli, e di cose, oggetti che diventato i soggetti rappresentativi di un orizzonte privato. Segni minimi, sintetici ed efficaci, aprono un ulteriore squarcio sul mondo dell’artista e, permettendone uno sguardo ancora più addentro, rivelano le corde più autentiche della sua sensibilità creativa.

Giulia Guueci

I ritratti di Linda, per me, sono come dei segnalibri, come delle tracce di una narrazione che le consente di raccontarsi nella relazione con il volto dell'altro, in quell'operazione esoterica e liberatoria che lei vive durante l'atto pittorico. Lo sguardo di Linda è sulla fragilità dell'altro, sul suo volto, visto come manifestazione inconsapevole di un'ontologica solitudine. L'altro, l'io/tu, diventa per lei lo specchio attraverso cui poter intravedere la propria persona, la maschera, ossia l'inconsapevole, tragico attore di quella commedia che è la vita, che, come dice Deridda, è "l'origine non rappresentabile della rappresentazione".

Enrico Spedale

Sul disegno.

Ecco il perché di un disegno che si fa essenziale, asciutto, acromatico e non pittorico. Un disegno prosaico che, registrando appunti casuali strappati al quotidiano, risale ai segni antichi ed eterni, a qualcosa di lineare ed archetipico. Gli oggetti, i paesaggi e perfino le persone portano dentro di sé la traccia di ciò che un tempo

furono le esistenze originarie. Qualcosa di prossimo agli Dei, o alle stelle. Linee, forme arcaiche, suoni astratti: questo eravamo, un tempo. Tutto il resto è prosa, è sovrappiù, è quello che siamo diventati, è la rete di piccole storie e memorie che ogni giorno costruiamo per diventare uomini.

Ma eravamo simili a un frammento di linea, o di stella... appena 12 miliardi di anni fa...

Helga Marsala

LINDA'S SPACE

Dietro la personalità apparentemente ''maledetta'" o

caotica di molti artisti si nasconde spesso un metodo

ben preciso con risvolti rigeneranti e seri. In questi ritratti

di Linda c'è un lungo e preciso lavoro su persone

reali di tutti i generi ed estrazione sociale ed マ come se

questa lunga, quasi ossessiva , serie di volti a lungo andare

ci svelasse qualcosa d'altro che la semplice storia

psicologica del soggetto e ci svelasse uno spazio altro

che, normalmente, non percepiamo sotto la costante

pressione del nostro Ego.

Questo "qualcosa" è al di là della storia individuale e

del suo teatro psicologico, è qualcosa di originario e

senza nome come quell' uomo, evocato dal patriarca

zen cinese Rinzai, che entra ed esce continuamente da

questo corpo, un essere " senza rango o definizione"

che e' il nostro vero Sé, la nostra vera natura.

Su un livello strettamente pittorico potremmo citare

tanti maestri ed influenze da El Greco fino a Kokoshka

, Soutine fino ai contemporanei ma questo non ci interessa

più di tanto. Nel curare questa mostra abbiamo

invece deciso di esaltare, accanto all'approccio " pacifico

e poetico degli acquarelli , questo sguardo dei ritratti

come in un panopticon o una sala degli antenati delle

dimore nobiliari oppure i lunghi e freddi corridoi dei

conventi pieni di anonimi ritratti degli abati...

Benvenuti !

Gianni Gebbia

 

“I discorsi sulla pittura sono destinati forse a riprodurre il limite che li costituisce,

qualsiasi cosa facciano e qualsiasi cosa dicano: c’è per essi un di-dentro e un di-fuori dell’opera, non appena c’è opera.”

J. Derrida

 

 

PROLOGO: PRESENTANDO LINDA RANDAZZO

 

Linda Randazzo è un’artista vera. Basta guardarla negli occhi per scorgervi il fuoco di quell’ossessione creativa che non l’abbandona mai, accompagnandola nelle sue appassionate incursioni tra i media – fotografia, performance, teatro, illustrazione – pur sentendo il bisogno di tornare al disegno e alla pittura, ambiti dai quali non può mai staccarsi per troppo tempo. Pittrice, infatti, Linda Randazzo lo è, inevitabilmente e inesorabilmente. Perché attraverso il segno, il tratto, l’immagine, ella analizza, sedimenta, studia e rielabora la realtà che la circonda, dialoga con i personaggi, siano essi protagonisti, comprimari o comparse, che hanno popolato e popolano il suo vissuto e il suo pensiero, prende possesso del mondo e ne fa strumento di narrazione di sé.

Dopo il liceo artistico, i suoi studi e la laurea in scenografia presso l’Accademia di Palermo con Enzo Patti (Favignana, 1947), con il quale allaccia un rapporto di profonda stima – “ha legato indissolubilmente insieme il teatro alla pittura nel mio cuore” –, e poi il master in Design per il teatro al Polidesign di Milano le hanno lasciato in eredità la disinvoltura nell’uso di ogni genere di materiale, ma soprattutto la scioltezza nel padroneggiare con agio il grande come il piccolo formato, affrontando la solennità di un supporto atto a ospitare un ritratto a grandezza naturale così come la leggerezza guizzante di un foglio su cui fissare un volto o una figura con pochi, essenziali tratti d’inchiostro.

Linda Randazzo fa parte di quell’interessante compagine di autori oggi trentenni provenienti dall’Accademia di Belle Arti di Palermo e affermatisi negli ultimi dieci, quindici anni circa nella scena locale (in alcuni casi anche nazionale), muovendo i primi passi nelle collettive organizzate dai loro docenti – si ricordino, ad esempio, le edizioni di Passport, mostra corale allestita ai Cantieri Culturali alla Zisa dal 2008 e curata da Daniela Bigi e Gianna di Piazza – o con piccole ma ben fatte personali presso le giovani gallerie palermitane, come Zelle Arte Contemporanea, del videoartista Federico Lupo. Di questa schiera di giovani autori, alcuni sono già caduti nel dimenticatoio, mentre altri hanno scelto di trasferirsi in altre città, magari più vicine ai centri nevralgici del sistema. Qualcuno, come Linda Randazzo, ha preferito partire per poi ritornare, contando sul senso di appartenenza e di consonanza con le luci e le ombre, i contrasti e le contraddizioni di questa città e trasformandolo in punto di forza.

 

MAESTRI; MODELLI E RIFERIMENTI

 

Nelle esperienze di formazione dell’artista, un posto di rilievo lo occupa la laurea di secondo livello in Accademia a Palermo e soprattutto l’incontro con il pittore palermitano Alessandro Bazan (Palermo, 1966), maestro e insostituibile punto di riferimento per la Linda Randazzo pittrice, che intanto muove i primi passi nel mondo dell’arte cittadino presentando inizialmente degli scatti ispirati dal suo docente di  fotografia Sandro Scalia. Da Bazan, che con generosità apre le porte del suo studio a tutti gli allievi, apprende un approccio sciolto, quasi spregiudicato alla pittura, che si traduce in uno stendere il colore con gesti rapidi ottenendo un effetto liquido, nel giocare con le deformazioni, con le pennellate nervose, le imperfezioni, appropriandosi di una sorta di realismo espressionista dei nostri tempi. Difficile, per lei come per molti altri ‘bazzaniani’, scrollarsi di dosso l’ingombrante e troppo connotata figurazione del maestro, ma nel tempo e con non poca fatica la giovane autrice è riuscita a trovare una sua cifra personale, a maturare, a trovare il bandolo di quella magmatica matassa che si annoda e si aggroviglia dentro di lei.

Accanto ad Alessandro Bazan, altri autori della scena artistica palermitana e siciliana, da Francesco Lauretta (Ispica, 1964) a Francesco De Grandi (Palermo, 1968), e soprattutto Andrea Di Marco (Palermo, 1970-2012), autore precocemente scomparso, le hanno indicato una strada, la possibilità di portare avanti il ‘mestiere di pittore’, di utilizzare tele e pennelli per ricreare un universo figurativo contemporaneo, senza cadere negli sterili virtuosismi o nel vuoto citazionismo, rendendo attuale una pratica, quella della pittura, spesso abbandonata o rinnegata dall’arte contemporanea e solo da alcuni anni tornata con forza sulla scena internazionale.

Da ognuno di loro ha saputo cogliere una lezione da rielaborare: l’impasto cromatico e la pennellata spesso ‘sporchi’, la densità e la scorrevolezza del tratto da cui affiora l’immagine, l’attitudine fenomenologica verso persone e cose del quotidiano, senza proiezioni nel fantastico ma con quella curiosità da rabdomante dell’immanenza. “Ho capito di essere legata a una tradizione di luce, se così si può dire, ma al contrario di loro forse ho fatto un passo indietro, ho guardato alla pittura siciliana degli anni Trenta, alla Pasqualino Noto, ho guardato l’Ottocento.”

Linda Randazzo non ha mai cercato scorciatoie, ma con coraggio ha scelto di affrontare a viso aperto il suo destino di pittrice, di confrontarsi con una tradizione che la affascina, di non rifiutare ‘il mestiere’ per più facili scorciatoie. Ama la storia dell’arte e intesse dialoghi ideali con gli artisti del passato che più sente vicini alla sua sensibilità. A Lia Pasqualino Noto (Palermo, 1909-1998), nota autrice della scena artistica siciliana del Novecento, la unisce l’interesse per la figura umana, per i volti di parenti e amici, quella passione per il ritratto a un primo sguardo realista, ma costellato di quelle irregolarità nella prospettiva e nelle proporzioni, di quel lieve ma insinuante caricare di espressioni e dettagli fisionomici che travalicano la verosimiglianza per sfociare nell’interpretazione psicologica dei personaggi raffigurati.

Al di là del panorama locale, Linda Randazzo padroneggia con competenza tutta la storia dell’arte, studiata anche a Firenze, così come ama la filosofia del Novecento, il pensiero ‘negativo’ di Schopenhauer e Nietzsche, la psicanalisi di Freud e soprattutto di Jung, l’estetica di Deleuze e Merleau-Ponty.

Rispetto alla pittura, afferma: “Amo tutta la storia della ritrattistica, mi sono impuntata di essere una ritrattista andando contro le correnti più contemporanee del mio contesto. Amo molto e ho studiato molto il disegno del Rinascimento italiano dato che ho vissuto a Firenze, e credo saldamente nel disegno. Adoro poi il Seicento e, rispetto ad autori più recenti, dall'Impressionismo in poi per me i capisaldi della pittura sono stati Paul Cézanne, Vincent Van Gogh, Henri Matisse, la Secessione viennese. Ho venerato Edvard Munch, naturalmente tutto l'Espressionismo tedesco, essendo credo irrimediabilmente una pittrice che a livello gestuale è espressionista, anche se adoro il rigore classico della pittura italiana.”

Dalle nature morte seicentesche e dai pittori del Nord, come il tedesco Hans Baldung Grien (1480-1545), celebre ritrattista, assimila anche quel gusto per il grottesco e quella fascinazione per i temi della vanitas, della morte, della danza macabra, che la attirano fortemente e che si uniscono, nella sua sensibilità, a queste stesse tematiche così presenti nel Barocco palermitano e nella cultura locale. Da ciò provengono figure come teschi e scheletri che con sardonica ironia a volte escono fuori dalla sua mano, ma anche senza per forza scegliere soggetti così espliciti, un senso di ‘gaia Apocalisse’, per citare Hermann Broch e la sua celeberrima definizione della Vienna fin de siècle, affiora spesso dai suoi dipinti, dai ritratti dell’alta borghesia o della nobiltà palermitana, da chi ancora cerca di far sopravvivere quell’eco lontana di fasti perduti. Questi volti sono sorridenti e malinconici, scarmigliati ed eleganti, trascurati e attenti al dettaglio, portatori di quelle affascinanti antinomie che rispecchiano perfettamente l’autrice stessa, nella quale convivono spavalderia, fragilità, energia e bisogno di un rifugio, l’alveo rassicurante e vitale della sua pittura.

Sebbene resti fedele alle fisionomie dei soggetti raffigurati, pur percorsi da quelle più o meno marcate deformazioni di eco espressionista che costituiscono una delle cifre stilistiche proprie dell’autrice, ella sa farli ‘parlare’, fa in modo che siano soprattutto i loro sguardi vivi e vitali, di volta in volta guizzanti o malinconici, circospetti o spavaldi, a raccontarci delle loro vite, anche quando sono delineati con pochi, sottili tratti acquerellati.

Linda Randazzo non ha bisogno di troppi elementi per raggiungere lo scopo narrativo dei suoi ritratti, ed è una scelta, non una necessità, quella di lavorare spesso sui grandi formati e su un realismo quasi fotografico. In sé e per sé, infatti, le basterebbero solo pochi tratti per decifrare e veicolare l’essenza di un volto e le sfumature di una personalità, con un talento da vignettista consumata che sa dosare il segno in equilibrio perfetto tra sintesi e caricatura, come nell’icastico ritratto di profilo e da seduto di Francesco Alliata.

Grandi o piccoli, a olio o a matita acquerellata, la galleria di personaggi che popolano i dipinti e i disegni di Linda Randazzo è costituita da amici, conoscenti, maître à penser dei quali l’artista ci restituisce il volto e in molti casi l’anima, come nel bellissimo volto solcato da ombre e rughe, proprie di chi ha molto visto e vissuto, della fotografa palermitana Letizia Battaglia, o il profilo sottilmente beffardo di Francesco De Grandi.

 

ACQUERELLI: ELOGIO DELLA LEGGEREZZA

 

“Voglio vivere dove il grande dio sole dispensa per me i suoi sguardi migliori, dove il grande dio sole smentisce le mie malinconie con la forza del suo calore, dove la luce accecante trasfigura le tristi realtà del mio cuore.”

In questi versi scritti da Linda Randazzo si legge la passione per le vivide trasparenze di una luce calda, mediterranea, una luce che illumina lo sguardo e fa bruciare pelle e cuore e che lei non tralascia di utilizzare come filtro per guardare il mondo e per scacciare le ombre oscure della mente, dando forma concreta a quel suo desiderio di schietta verità e di diretta presa di possesso della realtà che trasferisce nella pittura.

La luce veicola le sue percezioni e la guida nella resa delle immagini dei suoi dipinti, catturate dal vero e solo di rado da qualche fotografia. Quella stessa luce cerca di cogliere e rendere materia viva nell’ampia serie dei suoi acquerelli, specialmente quelli dedicati alla Sicilia. Lì suoni, odori, colori, umori di quel caleidoscopico mondo che è la Palermo più popolare, quella delle capanne nella brulicante spiaggia di Mondello o delle madri nei cortili in prendisole e con le mani ai fianchi, sembrano trovare una loro sublimazione silente, lirica, lussureggiante, assoluta.

La serie è stata iniziata proprio in parallelo ai versi citati in precedenza quando si trovava lontano dall’isola, nella soffitta di Milano dove viveva quando studiava Design per il teatro, certo ben distante dalle roride temperature e atmosfere sicule. Attraverso gli acquerelli, dunque, come magici strumenti di un rito sciamanico, cercava di presentificare un desiderio, alleviare la malinconia di una lontananza solitaria. Allo stesso tempo rapidi e guizzanti nel tocco, trasparenti nei toni, silenti o dolcemente musicali nelle atmosfere, essi contengono il senso del germinare dell’immagine dal foglio bianco, da quel dialogo sonoro di pieni e vuoti, potenza e atto che è l’immagine.

“Per quanto riguarda i miei acquarelli, gli ultimi sulla Sicilia, c'è dentro tutta la voglia di usare quel sole imperituro, quel tempo fuori dal divenire, quel tempo proprio della contemplazione pittorica che ormai solo qui è ancora possibile trovare. Per un pittore la Sicilia è il massimo”.

Non solo figure umane, ma anche animali solitari, un cane che si aggira mesto, uno stormo di gabbiani che pare fissare malinconico l’orizzonte, dei gatti randagi, così come a volte sa essere lei, tenera e ribelle al tempo stesso. Come attraverso una serie di istantanee, Linda Randazzo disegna il mondo, ci racconta di vita e morte, silenzio e risata, degli altri e di se stessa, in una sempre viva poesia del divenire, in un intenso racconto per immagini.

 

Linda Randazzo, appunti da una conversazione con l’autrice, aprile 2015.

Si ricordi, ad esempio, la collettiva “Città e mare”, Arsenale Borbonico e GAM, Palermo 2003.

Lia Pasqualino Noto nasce a Palermo nel 1909. Inizia a studiare pittura giovanissima con Onofrio Tomaselli, artista d’impronta tardo-ottocentista. Dal 1928 frequenta lo studio di Pippo Rizzo, pittore futurista e segretario regionale del Sindacato fascista di Belle Arti per la Sicilia occidentale. Il suo debutto sulla scena artistica palermitana risale al 1929, quando partecipa alla II Mostra del Sindacato Siciliano Fascista, ove rivela un primo sguardo verso gli stilemi dell’arte novecentista. L’adesione alla plasticità e alla solidità delle forme di Novecento si va affermando fino alla prima metà degli anni Trenta, quando la sua pennellata si fa più mossa e lo stile più vibrante. Nel 1932 ha la prima personale alla III Sindacale (Palermo, Rotonda del Teatro Massimo). Nel 1934 espone con Guttuso, Franchina e Barbera alla storica mostra presso la Galleria Il Milione di Milano, accompagnata da una conferenza di Edoardo Persico: nasce il “Gruppo dei Quattro”, guidato da uno spirito e da uno stile antinovecentisti. Il gruppo espone anche a Roma, alla Galleria Bragaglia Fuori Commercio nel 1935 e alla Galleria La Cometa nel giugno ‘37. Nell’agosto 1937 inaugura a Palermo la Galleria Mediterranea, presso Palazzo De Seta alla Kalsa, esperienza proseguita negli anni Quaranta presso la Libreria Flaccovio.

Espone in numerose rassegne italiane (tra cui la Biennale di Venezia e la Quadriennale di Roma) e internazionali e collabora con quotidiani e riviste locali e nazionali.

Dopo un periodo dedicato a una dimensione molto intima della pittura, è tornata sulla scena palermitana con l’antologica del 1969 presso la Galleria Arte al Borgo. Muore a Palermo nel 1998.

Marina Giordano

 

La carne e il sospiro

Tema

«Ogni buona idea è stata già pensata: bisogna soltanto cercare di pensarla un’altra volta» (Johann Wolfgang Goethe).

Se è vero, come dicevano i nostri antenati, che abbiamo bisogno di auctoritates, allora – per caso –  mentre pensavo a questo scritto ho trovato, nella replica della puntata di FuoriRoma (Rai 3) dedicata nel 2017 da Concita De Gregorio a Palermo, una citazione perfettamente calzante. Ecco le parole di Antonio Dimartino e Fabrizio Cammarata, cantautori del capoluogo siciliano: «In nessun posto come a Palermo la morte fa parte della vita, e ogni istante della vita celebra la morte». Proprio questa riflessione ha rafforzato la mia idea su quel senso siciliano, in particolare palermitano, della morte. D’altronde proprio a Palermo i morti non si celebrano. Si festeggiano. Il 2 di novembre arriva la Festa dei Morti: una Befana anticipata per i bambini siculi. L’ho appreso da un articolo di Francesco La Licata, pubblicato sulle colonne de “La Stampa”, dove a corollario della convinzione che il pensiero della morte sia presente nei siciliani e non ci sia proprio verso di esorcizzarlo, si cita Giovanni Falcone, che arrivava a praticare l’ironia e l’autoironia per tenerlo lontano: «Il pensiero della morte – disse alla scrittrice Marcelle Padovani – mi accompagna ovunque. Ma, come afferma Montaigne, diventa presto una seconda natura... si acquista anche una buona dose di fatalismo; in fondo si muore per tanti motivi, un incidente stradale, un aereo che esplode in volo, una overdose, il cancro e anche per nessuna ragione particolare».

Ecco uno dei tanti fil rouge che ingrossa l’intricata matassa dell’enigma Sicilia, da Giovanni Verga a Federico De Roberto, da Giuseppe Tomasi di Lampedusa a Vitaliano Brancati, ma anche fino a Lucio Piccolo, Bartolo Cattafi, Giuseppe Bonaviri: una Sicilia che celebra la sua ancestrale estenuazione di tramonto. E proprio le arti visive dell’isola, da quelle maggiormente risalenti a quelle più contemporanee, hanno rafforzato la mia convinzione sulla perfezione e sulla vitalità di questo sensus mortis: sulla sua immanente divinità.

 

Premessa #1

A Palermo c’è un grande, straordinario (nel senso etimologico del termine) affresco distaccato, conservato presso la Galleria Regionale della Sicilia/Palazzo Abatellis. Si fa comunemente risalire verso la metà del XV secolo. Non è certa, tuttavia, la committenza dell’opera in questione, non è certa neppure la nazionalità dell’autore (catalana?), figuriamoci il suo nome. Il cui surrogato è divenuto quello di “Maestro del Trionfo della Morte”. Nomen omen. D’altronde il titolo dell’affresco, nonché lapalissianamente il suo contenuto, sono appunto il Trionfo della Morte. Quest’ultima, infatti, domina la scena in sella a un cavallo ectoplasmico, infernale, che irrompe in un giardino, scagliando i suoi dardi letali su nobili fanciulle e giovani gaudenti. Mentre a terra c’è un tappeto umano intessuto dei cadaveri dei potenti del tempo: vescovi, un papa, un imperatore, un sultano, un uomo di legge. La Morte risparmia solo la folla di nullatenenti (a sinistra) che, invece, la invocano per ricevere finalmente sollievo dalle proprie sofferenze terrene. Mentre sulla destra c’è un drappello di dame e cavalieri, musici e poeti che, apparentemente disinteressati a quello che accade, perseverano nel godersi la vita e la bellezza. Un Memento mori in piena regola, molti commenteranno. Sì è vero, i leitmotiv di questo genere di allegoria medievale ci sono tutti. Proprio tutti. La transitorietà dell’esistenza, la caducità della vita, della vanità dei beni terreni e delle ambizioni umane, in contrapposizione alla vita eterna e all’esigenza della salvezza dell’anima. Ma perché non leggerci anche un invito a godere dei piaceri della vita e ad approfittare di ciò che offre il mondo, vista appunto la precarietà del tutto? Insomma, una traduzione iconografica dell’oraziano Carpe diem? Quest’ultima interpretazione certamente non fu contemplata da Pablo Picasso che, stando a quanto riferito da Renato Guttuso, si sarebbe ispirato –  attraverso una sua riproduzione fotografica – al Trionfo della Morte di Palazzo Abatellis per la sua Guernica. Ma non è da escludere, invece, che quest’ultima interpretazione informi la ricerca degli artisti siculi, soprattutto di quelli a noi più prossimi, e le loro vibrate, funeree e insieme colme di splendore atmosfere, dove si coagulano vita e morte, bellezza e vecchiaia, agi e povertà, amarezza e rassegnazione, la cura, la compassione, l’amore, la speranza, la resilienza. Da quegli artisti, per esempio, del cosiddetto Gruppo di Scicli (Sonia Alvarez, Sandro Bracchitta, Carmelo Candiano, Ugo Caruso, Giuseppe Colombo, Piero Guccione, Giovanni La Cognata, Franco Polizzi, Giuseppe Puglisi, Franco Sarnari, Pietro Zuccaro), a figure “in solitaria” come Giovanni Iudice, fino ai protagonisti della Scuola di Palermo (Alessandro Bazan, Francesco De Grandi, Andrea Di Marco e Fulvio Di Piazza) e alle sue ultime generazioni, come Linda Randazzo (si pensi alla sua versione del Trionfo della Morte, 2018). E, allora, devo cominciare da capo.

 

Premessa #2

Il mio “viaggio siciliano” dell’estate 2018 mi ha portato lontano dagli echi, peraltro ben presto sopiti, di Manifesta 12, dritto nel ventre caldo della Vucciria palermitana. Esattamente a piazza Garraffello, dove s’incontravano le logge di tutti i mercanti provenienti dal Mediterraneo e oltre, a pochi metri dalla Cala, il vecchio porto, quando Palermo era florida e la Vucciria era il cuore dell’economia e della vita sociale della città. Dalla piazza, in un andito quasi nascosto alla vista, si dipana vicolo della Morte. Un tempo luogo di degrado e discarica di rifiuti, poi divenuto atelier a cielo aperto per artisti chiamati a raccolta a ripulirlo e a convertirlo in una galleria di strada. Un catalizzatore di energie (già dense nell’aria in un quartiere ad alta “complessità sociale” e, ormai, a rischio imminente di gentrificazione) alimentato dall’arte. Uno spazio di aggregazione. Tra i fondatori del manipolo di questi “Artisti del vicolo della Morte”, figurano Antonino Gaeta e Linda Randazzo, per i quali, non a caso, «la morte è intesa come rinascita, in una sorta di cerchio della vita». Della vita, lo sappiamo, fa parte un po’ tutto, in una stratificazione continua e fluida che ricorda, nel capoluogo siciliano, la morfologia di dolci tipici locali, come la cassata siciliana o la torta “sette veli”. In un continuo alternarsi, cioè, di strati, ora di luci e ombre, ora di bene e male, ora di detti e non detti. Proprio questi ultimi qui sono insidiosi, difficili da decifrare e richiedono interpreti ad hoc. È il caso del recente sfregio, in piazza Garraffello, del volto della “Santa Morte” (omaggio, in questo caso, anche alla cultura messicana), opera realizzata dall’artista Igor Scalisi Palminteri su una porta di legno alta tre metri, per coprire la zona del crollo dell’antica loggia dei Catalani. Uno sfregio compiuto con una bomboletta spray color nero. Forse più di un mero atto teppistico. È quanto trapela dalle parole di Linda Randazzo: «La comunità è libera di reagire come crede all’arte, che è un importante veicolo di messaggi anche scomodi. Ma è anche un chiaro segno che noi artisti non siamo più i benvenuti». Eppure gli artisti qui a Palermo, nonostante tutto, perseverano. Come fa lo stesso Igor Scalisi Palminteri che, insieme ad altri quattro amici artisti (Alessandro Bazan, Andrea Buglisi, Angelo Crazyone e Fulvio Di Piazza), ha realizzato un progetto per riqualificare Ballarò e l’Albergheria con cinque grandi dipinti. Come fa Linda Randazzo, “sfrattata” dal mutamente delle circostanze o degli equilibri “ambientali” dal suo studio di Palazzo Rammacca, in piazza Garraffello. Ancora una volta storie di vita e di morte, di distruzione e resurrezione, di legalità e criminalità, di eroi dell’antimafia e professionisti dell’antimafia, di sciasciana memoria.

 

Linda Randazzo. Palermo 01. 01. 1979

L’ho incontrata per la prima volta un paio di mesi fa eppure, strano a dirsi, sembra che Linda Randazzo la conosca da sempre. Mi accoglie in quello che, di lì a poco, sarebbe divenuto il suo ex studio. Mi anticipa spalancando il portale malconcio di Palazzo Rammacca e mi conduce su, attraversando un dedalo di scale e scalette che sembrano uscite da un film di Harry Potter. Fino all’ingresso di un appartamento che era stato l’atelier di Alessandro Bazan, uno dei suoi maestri. Nel palazzo hanno vissuto nel tempo molti artisti contemporanei siciliani e stranieri, oltre a essere stato per oltre dieci anni sede di Francesco Pantaleone arte contemporanea, galleria fondata nel 2003 con lo scopo di valorizzare artisti siciliani e fornire una piattaforma a Palermo per artisti già radicati al livello internazionale. Resto subito colpito dall’ampiezza dei locali dello studio, incastonati l’uno dentro l’altro come in una matrioska. C’è solo l’ombra di quelli che dovevano essere stati tempi decisamente migliori. L’intonaco alle pareti è sbiadito quanto decrepito, aggrinzito inesorabilmente, fino a polverizzarsi in veli di polvere che coprono i pochi mobili superstiti. Una serie di divani sfondati sembrano supplicare di poter finire finalmente i loro giorni da sedute per andare a ingrassare qualche discaricare. Eppure l’atmosfera è tutt’altro che squallida, apatica. Ci pensano le tele, piccole, medie, grandi che spuntano un po’ dovunque. Tracce indelebili di un percorso di ricerca già al giro di diverse boe. Molti i ritratti che mi scrutano implacabilmente, la cui pennellata, densa e polimorfa, entra a far parte di un processo convulsivo, carico di ansia e rabbia, che lascia dietro di sé la traccia indelebile dell’incertezza e della conflittualità dell’autrice. I debiti pittorici non sono solo autoctoni – Bazan in testa – ma anche tra quelli più significativi del panorama internazionale, da Marlene Dumas a Francis Alÿs, da Elizabeth Peyton a Wilhelm Sasnal, da Alex Katz a David Hockney, da David Salle a Francesco Clemente. E, poi, ancora ecco assieparsi, appese come capita, scene di vita quotidiana descritta su spiagge assolate, con un campionario di varia umanità, in testa quella “bagnante”. Che sembra presa in prestito da quella scrutata da anni nella borgata marinara di Partanna Mondello, dove Linda Randazzo abita e, da poco, ha trasferito lo studio in un garage. Uomini e donne, ora giovani, ora di mezz’età avanzata, vagliati dall’artista in una teatralizzazione del presente attraverso una minuziosa, sia pur sintetica, descrizione del loro modo di vestire, di pettinarsi, di atteggiarsi in una ricorrente pinguedine. Perché – per utilizzare le parole stesse dell’autrice – «nel capoluogo siculo la metafisica ha l’odore acre della carne arrostita nei mercati del centro storico» oppure di quella bruciata dal sole dei bagnanti stesi su lettini da mare e teli da spiaggia, aggiungo io. Tutte incoerenze estetiche congenite nel carattere di un’artista contemporaneo del luogo. Che, come Linda Randazzo, dipinge pertanto soggetti naturali dalla banalità quotidiana, ma solo in apparenza. Spesso, infatti, dietro queste figure si nasconde il mito (come quello di santa Rosalia, nume tutelare della città, nel dipinto Lia del 2018). Dietro queste figure insomma, in un interno spesso, c’è un significato nascosto nell’apparente innocua presenza della natura, della cosiddetta “vita normale”. Restituito su tele o carte ottenute con l’antico trucco di chi sa bene che la radice di “arte” è “artificio”, e che il compito sublime dell’artista odierno sia quello di comunicare la sua intima fede come dogma. E la fede dell’autrice si riscopre oggi solo estetica e, in questo, tradisce il suo limite immanentista che informa, giorno dopo giorno, la sua inquietudine ancora lungi dall’essere accettata, tollerata.

 

Mostra

Per la scelta del titolo di questa personale mi è venuta subito in soccorso una poesia dell’indimenticabile Alda Merini, “La carne e il sospiro”, appunto. E, più ancora, mi ha spinto a questo “prestito letterario” un passaggio della poesia: “…Prima della poesia viene la pace, un lago sempiterno e pieno sopra il quale non passa nulla, neanche un veliero; prima della poesia viene la morte, qualche cosa che balza e rimbalza sopra le acque…”. Sopra le acque… sì, nel nostro caso ora di una serie di lavori (cinque dipinti su tela, due acquerelli e tre matite su carta), metà dei quali eseguiti quest’anno. Dove sì, è proprio vero, prima di entrare troppo nello specifico, infatti, non avrebbe permesso di cogliere quella zona liminare, quella sorta di limbo terrestre, in cui vivono – o si illudono di vivere – i modelli inconsapevoli che lo abitano. Una sorta di trasposizione pittorica di “The Others”, il film del 2001 diretto da Alejandro Amenábar e magistralmente interpretato da Nicole Kidman. La semplicità della scena, in Love story (acquerello su carta, 2016), Signora (acquerello su carta, 2016), Bagnanti, Bambino oppure in La pasta al forno (matite su carta, 2018), è minata da questa inquietudine metafisico-esistenziale dell’artista, che risulta evidente a uno sguardo attento. Ottenuta attraverso un caleidoscopio di escamotage tecnici: la definizione dello spazio attraverso l’esasperazione della prospettiva diagonale e un vasto tratto di cielo aperto, con tale apertura che contrasta con i personaggi, spesso relegati, in alcuni casi addirittura claustrofobicamente stipati, in un andito ristretto del foglio di carta. Foglio lambito da un diabolico uso dello sfumato, del non-finito, in un elogio al favor vacui che innesca nello spettatore la sensazione di guardare la rappresentazione di un ricordo, la sintesi di un déjà vu, di una vita che forse è già stata e che non tornerà più. Linda Randazzo improvvisa ed esplora sulla carta prima di dipingere, e i suoi numerosi taccuini, fogli d’album, tradiscono sempre una soluzione in fieri alla trattazione della composizione. Che, nelle carte come nei dipinti, cattura un momento rubato nella vita di uno o più sconosciuti, in un’atmosfera conviviale che riesce tuttavia a irradiare tutt’intorno, non solo inquietudine, ma anche solitudine. Quella che connota l’esistenza di ognuno dalla nascita all’epilogo dal finale aperto. Ancora aperto. Eppure c’è ancora dell’altro a scandagliare i lavori esposti. Persino una dimensione erotica, che si manifesta in una sorta di retropensiero oltre la volontà stessa dell’artista e che emerge, alquanto evidente, tra bermuda, bikini e i costumi interi (si pensi alle tele Giuditta del 2017, Ciambella e Lia del 2018), nel mistero che aleggia intorno al privato di questi giunonici antieroi. Un modo sperimentale per rendere l’assenza di tempo, l’aspetto “fantasmico”, per chi riesce a vederlo nel cuore della realtà visiva, nella carne e il sospiro.

 

CESARE BIASINI SELVAGGI→Roma, 21.08.2018

 

 

 

Dipingere mi fa star male

 

Non so davvero come cominciare. Non trovo le parole per la pittura. Potrebbe essere semplice riuscire a scrivere qualcosa poi, sulla sua opera, facile facile. I suoi amori sono identificabili, locali potrei dire, e dire tanto in un momento così, definito ipermoderno,  sembra limitante. L’arte oggi, e tutta la società si muove con chiasso, è chiassosa. Il sistema ci vuole allineati e vigili nella nostra contemporaneità, attenti. Se poi si pensa alla pittura la si vuole fresca, e tanto significa, come sta accadendo in questi giorni, una pittura che scavi su se stessa, che non si presti a facili percorsi, come quello del ritratto, per esempio –mentre i paesaggi godono di un certo successo, anzi tutta quella pittura che si muove contro la figura miete successi in questo momento della nostra vita. Ma la pittura è mia. Ognuno usa la pittura come meglio crede. Il problema, semmai, è che la pittura non è mai sola, isolata. Il pittore spesso è solo, ma spesso il pittore deve assolutamente reagire alla sua custodia mentale, reagire, semplicemente perché il pittore dispone ormai di una follia di immagini, di immaginari. Se invece si ripiega su se stesso, se il pittore diventa analitico e si taglia le mani per contrariarsi, negarsi, se cioè non è solo (o anche) naif e depone la propria figura diversa, è possibile giungere a qualcosa che lo depone col tempo, cioè dentro un’arte se non proprio urgente e neanche necessaria almeno viva, o vivace, per la propria destinazione, estesa e distesa verso un futuro che può ancora offrirci sorprese con medium. Ma Linda non reinventa il medium. Se ne fotte di reinventare un medium per stare al mondo. Linda è talmente folle che vuole assolutamente, ma che minchia dico!, non vuole, è assolutamente fuori dal reale, iperreale, o subreale. Linda è nulla. Lavora col niente ed è talmente naif da formare follie e folle con i suoi ritratti, con le sue bestie, con il suo sole, con la sua isola, sola, il suo nulla è prezioso. Ma faccio un balzo indietro, mo’.

  • La prima volta che vidi, dal vivo, alcune opere di Elizabeth Peyton rimasi affascinato perché vedevo una pittura urgente, del qui e adesso. Erano ritratti fichissimi, di uomini androgini, bellissimi, tant’è che ho pensato che lei volesse essere un giovane uomo, molto cool. So che lei usa la foto dei suoi amori: è un’innamorata. Ad ogni modo osservando la sua pennellata apparentemente grezza, incerta, in verità è spietata, vertiginosa, direi:  virtuosa. E ricordo la prima volta che fui a conoscenza dell’opera di Linda Randazzo.

 

  • Mi tirò la giacchetta, mi disse: Sono Linda Randazzo. La pittura tira, mi disse, e nella collettiva che visitavo i suoi tre ritratti erano affollati di gente. Intorno installazioni e altre cose erano attraversati dal pubblico che invece, come api al fiore, si fermavano su quell’installazione pittorica dove riconoscevo gli amori di Linda appena conosciuta. Tre tele durissime, la pennellata densa, spessa, i tratti forti, segnali nervosi, riconoscevo: Linda ama alla follia. So che Linda non usa le foto, o meglio preferisce avere i suoi modelli dal vero. Ma lei non ama particolarmente loro, i soggetti, ma ama alla follia, ne è folle, la pittura: Linda è la pittura.

Mondello. Prendo Spaesamento. In copertina, una brutta copertina dove sono disegnati alcuni bagnanti e un Godzilla c’è ancora l’adesivo: “Novità”. Il breve romanzo è del 2010. Volevo sfogliarlo e scrivere tutte quelle parole che fanno della lingua del suo autore una lingua densa, sudata, barocca, quella di Vasta. Volevo semplicemente elencare queste parole come a dare colore o tono alle pennellate, così pensavo, spesse e dense di Linda. In questo breve racconto, un ritorno a Palermo, il protagonista-autore va (anche) al mare, racconta, e di quel mare si vedono i corpi, brutti e belli e sexi. La parola ci fa sudare. La parola ci fa mancare l’aria, il Solleone è rovente. Vedo un acquerello di Linda. Alcuni corpi in spiaggia s’arroventano. Il foglio bianco pare bruciato di luce. E quest’acquerello mi ha buttato indietro e dentro quel romanzo. Glielo dico a Linda. Lei non conosce Spaesamento, non Vasta, anzi all’inizio s’infervora perché vuole sapere chi ha dipinto quella spiaggia, s’agita. Tranquilla, Vasta non sa dipingere ma ha scritto qualcosa di quella spiaggia e se non è la stessa è la stessa cosa, per me è la stessa cosa. Vasta appena arrivato a Mondello  si stende sul ‘paramento funebre nella spiaggia’, scrive: “Che la realtà cominci. Che accada. Qualcosa”. Qui trova la signora lago, l’uomo con la testa topinatur, la donna cosmetica (è la donna metamorfica) ecc.. I corpi di Linda sono peggio delle parole di Vasta. Le ultime tele, sono per esempio altri esempi di corpi a Mondello torniti dal colore ad olio, anzi, soffocati. La sostanza manda in malora la parola e le parole non consentono di svelare quanto si vede e ci lascia vedere Linda, sentire anche, e annusare. In comune hanno il sudore le due opere (Vasta-Randazzo). E’ una pittura d’assedio quella di Linda, una pittura esclamativa dove accade qualcosa, un fenomeno qualsiasi, spesso è lo stesso quadro ripetuto, come nei ritratti sempre diversi e sempre realizzati dal vero, che si rilancia e si ripete come modificando una intonazione, rilanciando e rincarando che si riduce alla sua natura sempre originaria e autentica di scandalo, perché è scandaloso dipingere così oggi, sembrano minacce, rabbiosi i suoi autoritrattati, sembrano corpi d’orrore quelli stampati a noi perché sembrano andare oltre la loro stessa vita,  mere apparenze di vita e di morti.

E in uno di questi ritratti, anzi in un suo autoritratto v’ho visto il suo capolavoro. Un ovale ce la pone davanti in una posa che ci trascina tutti a pensarla altrove. Commuove cosa vediamo in lei. Intanto la pittura, intanto i colori ci abbagliano e ci conducono nell’ovale come dentro un abitacolo dove il malinconico e neo romantico avvolgono lei, e noi, spettatori riflessivi, c’è un’aura dentro l’ovale: di nero-grigio il quadro, con la carne rosata delicata e spessa, con quel rosa cantato e triste nell’espressione, e bello, Linda ci tira fuori dal chiasso, dall’urgenza inutile che ci inghiotte e ci sputa via da questo mondo che sappiamo a noi inutile, a molti come noi almeno, e l’urgenza è quella che va oltre il sistema e sistematicamente fuori brand; no, ha ragione lei, la sua opera è niente ma di quel niente denso, gigantesco di cui soffia Thomas Bernhard ne la sua Estinzione –ah, i titoli, geniali!. In questo piccolo autoritratto c’è qualcosa di evocato che supera i suoi maestri. La pittura si fa riflessiva, le pennellate incise di grigio diventano responsabili, adulte e future. La pittura mi fa star male, mi dice Linda. Ci credo. Non è facile come molti possono credere dipingere, non come fare un’omelette, ma è folle e sia benedetta questa follia che ci conduce all’inferno.

Francesco Lauretta

 

 

Linda Randazzo: l’Arte della semplicità e della luce

Osservando per la prima volta gli acquarelli di Linda Randazzo non ho potuto fare a meno di pensare al genere della poesia giapponese haiku. Ogni sua opera incarna il riproporsi e la ri-produzione di un’esperienza estetica che procede attraverso due caratteristiche peculiari: la semplicità e la visione fanciullesca, rispettivamente in giapponese osomi e karumi. I temi sono quelli del quotidiano, ma intrisi di una propria vitalità, di una propria unità temporale che, seppur non definita, rende dinamica ogni sua parte costituente. Si respira in questi acquarelli il peso dell’impermanenza, dell’oggetto che non è mai lo stesso, di una liquidità in continuo movimento, e per questo latore di una trasformazione che dona all’artista molteplici occasioni compositive. Linda Randazzo, anche se inconsapevolmente, fa tesoro del pensiero del grande maestro haiku Masaoka Shiki, fa suo il termine shasei, “ritrarre la vita”, congelarla in un istante, non un attimo prima, non un attimo dopo. Situazione questa che, in virtù delle proprietà citate precedentemente, fa di una foglia che cade, di cani randagi lungo la via, di bagnanti sotto l’ombrellone, in sostanza di elementi quotidiani, formidabili tracce di trasfigurazione mimetica.

  Secondo la concezione Zen il linguaggio non è in grado di supportare, di esprimere la verità assoluta, ma vi riesce solamente quando esso si ritrova libero da ogni giudizio, da ogni appendice, un’arte che tende all’Universale. Come lo è, del resto, l’arte di Linda Randazzo, che condivide con la poesia, perché di elementi poetici possiamo parlare nei confronti di questa pittrice, l’essenzialità, la sintesi. Un’arte ellittica che si spoglia della linea, dei contorni e che fa emergere dal vuoto il fluire della propria pittura, non materica ma impalpabile come lo sono i sogni. Si passa così dalla réverie al réve, dalla ponderazione, dalla meditazione, dalla fantasticheria all’insondabile, all’intelligibile, facendo della luce crepuscolare il proprio strumento di battaglia compositiva. Un vuoto embrionale, pieno di chiarore, che diventa origine cosmica, sintomatico di quel timore panico, infinito, che condivide con il foglio bianco la medesima sostanza. Un lumen intellettuale che procede per gradazioni, facendo del riverbero la sua unità sintattica, capace di rappresentare l’oggetto per se stesso, senza fronzoli, senza impalcature costrittive. Una pittura aperta, dialogica. Ogni passaggio di colore, ogni gradazione diventa così non uno schema rigido, ma un’unità di espressione, uno strumento di rivelazione del fenomeno che si dipana come un gomitolo fino a esprimere in pieno l’esperienza vissuta dall’artista.

  In quest’arte “semplice” e “universale”, Linda Randazzo concepisce ancora un’altra tematica molto cara alla poetica haiku, e cioè quella dell’impersonalità. Una dimensione in cui l’io pittorico si fonde con l’oggetto pensato, in cui il soggetto pensante e l’oggetto destinatario divengono parte del tutto; ed è qui che l’artista comprende di far parte del creato, fondendosi con esso, in un sistema in cui la vita e la morte fanno parte dello stesso ciclo esistenziale.

  A mio parere, tutta questa poetica della luce, della semplicità, viene sintetizzata egregiamente nel quadro che chiude la mostra, e che ha per titolo “Mondello”. Un barlume che acquista carattere e maturità consapevole, nel collocare in ogni suo elemento, come una sorta di deja-vu, le caratteristiche tanto care alla pittrice, facendosi portatore di significato. Ogni forma si spoglia del colore, metamorfosando quella imperatrix lux in ignis vesta, il fuoco eterno dell’Arte.

Fabrizio Corselli

Linda Randazzo, la ladra dell’anima più vera della nostra isola (di Stefano Schiró)

Aleggia nelle opere della Randazzo un senso di nostalgia-amore tutto isolano per la sua terra natìa, i suoi acquerelli tramandano la stessa potenza con la quale i venditori di meusa e panelle ti porgono i loro prodotti: la stessa vibrazione, la stessa magia antica, la stessa purezza nel gesto, la stessa autenticità. Sì perché ciò che più la contraddistingue è la sua sincerità: i fanciulli accanto alla barca sembrano dei carusi de “La terra trema” colorati, e hanno lo stesso barbaglio delle tele immense del nostro ladro del sole: Lo Jacono; Linda ama il profumo del mare, i costumi da bagno a Mondello, la Palermo dei Florio e quella maestosa de “Il Trionfo della morte” (i veri artisti osano sempre il confronto con le vestigia del passato). Nelle sue opere signoreggia l’ironia, un affresco di tipi umani inconfondibili, quegli esseri grassocci (un’ode a certa pop art o un riferimento colto alle veneri neolitiche-) poiché consapevoli dei riti, usi e costumi siciliani, barocchi poiché iper-barocchi sono anche i loro gesti, il loro agire, poiché tumida è anche la loro anima, il loro sentire (la Sicilia è quella dei Canti Barocchi di Lucio Piccolo, appunto).
I suoi dipinti continuano la narrazione degli acquerelli, la pennellata diventa sicura, densissima, un poco fauve -la Sicilia rimane selvaggia poiché coraggiosa-, amante dei lucori dei carretti siciliani, memore quindi delle linee di Guttuso e per certo una estimatrice dell’operato di Lautrec, ma forse anche di certe solitudini raccontate dagli scogli del pittore Gennaro Pardo. È la Linda amante del mondo animale, che ti seduce con la sua chioma scura e abbondante e frusciante; essa stessa scultura, filamento pittorico, con quello sguardo così siciliano come le sensuali modelle di Bruno Caruso, lei che ha rubato e continua a rubare l’anima più vera della nostra isola, e con la sua pura visibilità sguinzagliata ci offre le sue pianticelle, i paesaggi, i volti, le onde di mare, il suo cuore, i soggetti del suo genuino teatro e come tanti mazzi di fiori li depone sugli altari più interessanti dell’arte, che profuma di zagara e fichi d’India.

È lì, dove una poetica voce echeggia: “....ma tu la porta un poco socchiudi e guarda i veli
delle piogge lontane;
getta nel braciere corteccia di pino,
al davanzale appendi ciuffo di rosmarino,
e una lampada accendi al tuo silenzio celato:
verrà nei sogni oro filato di cieli,
e nella chiusa stanza, nel calmo splendore
vedrai svanire il mondo
nel volto rotondo d’un fiore”
(Cfr. Lucio Piccolo, “L’ammonimento”, v. 6-14, da “Canti Barocchi”, 1956).

Stefano Schiró

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Avere, in questo nostro oggi postumano, gli strumenti e l'impulso per mettere in scena (nella scena dell'arte), ancora l'istinto e la passione, "senza paura e senza speranza", è già un regalo per una visione pura di cuore e di intelletto. Prove tecniche, quasi cinematografiche, di un 'Trionfo della morte' sulla spiaggia di Mondello, dove tutti i bagnanti vivono la promiscuità dello svago indifferenti a quel sinistro monito che è destinato a dissolversi nel mondo della visione senza lasciare alcuna emozione. I bagnanti di Linda, soggetto "monografico" della mostra, visto in diverse varianti morfologiche nel teatro di posa di Mondello, conducono la classicità del tema, alla riva ideale di un Limbo senza dolore dove anche la cellulite e le deformitá antiestetiche dei corpi, guadagnano finalmente la gioia anestetica della pittura. E dunque...andate a cogliere questo regalo.

Alfonso Leto

Linda Randazzo, insopportabile ed irriverente esponente del panorama artistico italiano, ancora lì ferma sul trampolino dei dieci metri pronta per effettuare il salto per un podio sicuro. La sua pittura è sbagliata ed è proprio questa discrasia tra ciò che evoca e ciò che è matericamente a rendere il suo lavoro di grande valore. Pittrice e disegnatrice consapevole delle sue capacità soffre ingiustamente più d'altri la scarsa ricettività del territorio siciliano alle forme artistiche più forti e dissacranti; ma si sa, ed è ormai un fatto storico assodato, i grandi artisti faticano e non poco nel loro percorso.

Philips Monk

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